Ricordo del P. Cortese
Da questo articolo, pubblicato in occasione del XXV della tipografia del «Messaggero» (1939-1964), traspare tutta l’ammirazione dell’autore, il padre Vergilio Gamboso (1929-2011), meritorio per la pubblicazione dell’edizione critica delle «Fonti Agiografiche Antoniane», in più volumi. P. Gamboso recepisce l’informazione sulle torture subite da Padre Cortese a Trieste, ma poi avalla ancora la versione fornita dai tedeschi sul suo trasferimento prima a Verona e poi a Bolzano, dove si sarebbero perse le tracce di Padre Placido. Significativo l’accostamento del nostro Servo di Dio quel gigante di santità che è sant’Antonio di Padova: “Possiamo ben dire che riviveva nel piccolo infaticabile frate il cuore intrepido del suo Santo preferito, Antonio di Padova”.
La nostra tipografia è nel fiore della giovinezza: ha venticinque anni! La ricorrenza non può essere celebrata degnamente, senza rievocare colui che ne fu fondatore e animatore impareggiabile, il P. Placido Cortese. Una vita, la sua, rapida e intensa. Nato nella pittoresca isola di Cherso il 7 marzo 1907, ancor fanciullo seguì la voce divina che lo chiamava tra i fratini di S. Antonio. Ordinato sacerdote nel 1930 dopo aver compiuto con bel profitto il curricolo degli studi nei seminari dell’Ordine, P. Cortese consacrò i suoi giovani anni all’apostolato parrocchiale. I superiori, che ne apprezzavano le doti di preparazione culturale e di intelligente dinamismo, lo vollero nel 1937 direttore del Messaggero di S. Antonio. Nei sei anni che ricoprì il non facile incarico, ebbe modo di manifestarsi la versatilità del suo ingegno: al buon gusto del tipografo seppe unire una penna giornalisticamente efficace, una iniziativa vigorosa, soprattutto un’umanità ricca di calore che lo rendeva caro a collaboratori e amici. La sua resistenza al lavoro aveva qualcosa di straordinario. Gli associati «veterani» ricordano certamente le sue lettere nella prima pagina del bollettino, in cui P. Cortese lanciava l’idea audace di una nuova tipografia, ne accompagnava di mese in mese le varie fasi di realizzazione, finché nel 1939 poteva presentare il primo numero del Messaggero stampato all’ombra della Basilica. Furono anni di fervida operosità, purtroppo inceppata dagli incresciosi avvenimenti che piombarono l’Europa e il mondo in una follia di sterminio. P. Cortese ebbe la gioia di veder raddoppiata in poco tempo la famiglia dei devoti di S. Antonio, con un balzo in avanti che, se ha del provvidenziale, è anche un magnifico attestato delle capacità organizzative di lui. Chi volesse farsi un’idea delle sue qualità di studioso di cose francescane e di scrittore, può sfogliare la serie di Almanacchi Antoniani da lui curati, e scorrere la sua svelta Guida della Basilica, ch’egli conosceva ed amò come pochi.
Ma dove il P. Placido dette la prova della sua personalità fu, oltre che nell’apostolato della stampa, nell’assistenza spirituale e materiale prestata senza distinzione di tessere e di bandiere ai perseguitati politici, ai profughi, ai sofferenti che si moltiplicavano intorno al suo cuore paterno.
Nel 1940 l’Italia era stata travolta, a malincuore e priva di preparazione adeguata, dal funesto conflitto che doveva costarle tanto sangue, infinite rovine e irreparabili sciagure. Istriano di origine, P. Cortese non poté restarsene in disparte, affaccendato tra macchine e bollettini, mentre moltitudini d’infelici provenienti da terre confinanti con la sua patria, languivano nei campi di concentramento. Oggi ci tocca assistere a un’iniqua campagna di calunniose denigrazioni contro Pio XII: non credevamo che l’ingratitudine umana raggiungesse tale sfrontata durezza nel travisare fatti chiari come la luce del sole. P. Cortese fu appunto uno degli innumerevoli cristiani che aiutarono il grande Pontefice nella sua evangelica azione di pacificatore e di salvatore in quegli anni procellosi. Con denaro e generi affidatigli dal Papa e da persone pietose, il Direttore del Messaggero cercò di far fronte alle necessità più urgenti. A molti salvò la vita, a moltissimi ridonò speranza in ore di angoscia. Non lo ispirarono calcoli egoistici, non lo incitavano passioni di parte. Ciò che lo animava era unicamente lo zelo ardimentoso di beneficare chi soffriva, lo meritasse o no. Possiamo ben dire che riviveva nel piccolo infaticabile frate il cuore intrepido del suo Santo preferito, Antonio di Padova.
Stremata dai rovesci militari, dalle privazioni d’ogni sorta, nell’estate del 1943 l’Italia subisce un terribile collasso. Comincia allora l’occupazione tedesca nel centro-nord, mentre nel meridione le truppe alleate avanzano con esasperante lentezza. I meno giovani conservano la memoria della sconvolgente, cupa tragedia che su tutti si abbatté in quegli anni lontani, la storia dei quali resta ancora da farsi e lo sarà quando gli strascichi di rancori non sopiti verranno cancellati dal tempo. P. Cortese aveva nel frattempo lasciato la direzione della tipografia, ma intensificava la sua partecipazione all’arduo apostolato assistenziale, che in quel marasma diventava di giorno in giorno più rischioso. Non era uomo da dosare la bontà per paura del pericolo. Pericolo che alla sua azione disinteressata, si desse un’interpretazione politica, pericolo di dover sottostare alle rappresaglie di chi non riusciva a vedere in lui che un mestatore e peggio.
Quando suonò la sua ora. P. Cortese andò incontro sereno al suo Calvario. Non conosceremo mai, a questo mondo, il nome o i nomi di chi lo volle perduto. Da vero francescano, egli non sapeva diffidare: pensava che tutti fossero benintenzionati come lui. Gli venne teso un tranello. Era una domenica d’ottobre del 1944, e precisamente l’otto di quel mese. All’una e mezza del pomeriggio, due sconosciuti vennero al convento chiedendo d’incontrarsi col P. Cortese. Egli venne subito, si accompagnò a loro senza mostrarsi allarmato; conversando uscirono dal chiostro e dal piazzale della Basilica. Salì sopra un’auto per ignota destinazione. Da quel momento i suoi confratelli, che trepidavano per lui ma non avevano sospettato nulla, non lo rividero mai più.
Appena i superiori costatarono l’assenza del povero P. Cortese, cercarono ogni mezzo per entrare in contatto, magari solo epistolare, con lui; per appurare almeno dove lo avessero confinato, che ne avessero fatto. Voci incerte attestarono che, dopo averlo catturato a tradimento, i nazisti lo condussero a Trieste. Là qualcuno disse di averlo riconosciuto mentre, sfigurato dalla tortura, veniva portato fuori da una camera. Le sofferenze più atroci (tutti sanno di cos’erano capaci le abominevoli SS) non lo piegarono. Si volevano sapere da lui segreti che, come uomo e come sacerdote, egli non poteva rivelare. Non parlò. In seguito, gli aguzzini lo trasferirono a Verona e poi a Bolzano. Il 2 marzo 1945, insieme a un gruppo di detenuti politici, fu fatto uscire da quella città verso la Germania. Dopo, di P. Cortese non si poté saper nulla, per quante indagini fossero compiute a liberazione avvenuta. Abbiamo buone ragioni per supporre che, dopo indicibili sofferenze, ci si sbarazzasse di lui con una esecuzione feroce, quale la disperazione per l’imminente catastrofe poteva suggerire a carnefici efferati.
Oggi P. Cortese non ha una tomba che accolga i suoi martoriati resti mortali. Il Signore, ne siamo certi, avrà accolto nella sua misericordia l’anima dell’eroico confratello di S. Antonio, immolatosi nella sua missione di bontà. Padova gli ha dedicato una strada cittadina; gli alleati gli hanno attribuito un’onorificenza; la Cecoslovacchia gli ha concesso una decorazione… Ma il riconoscimento più significativo e durevole è l’affetto che gli tributano, particolarmente in questo XXV, quanti ebbero la ventura di conoscere e d’amare questa bellissima figura di italiano e di francescano.
V.G.