Ricorrendo il VI Centenario della morte di Giotto (Firenze, † 1337), la «Rivista di Scienze, Lettere a Arti», edita dalla Pontificia Facoltà Teologica dei Frati Minori Conventuali di Roma, nel numero speciale dedicato al grande artista toscano, ospitò il seguente articolo di Padre Placido Cortese, che si fa apprezzare per il suo rigore nella esposizione e documentazione.
Nella meravigliosa trilogia di città, che presentano in questo centenario giottesco agli occhi degli amatori del bello una visione splendida d’arte e di fede, c’è Padova, la «città del Santo».
La chiesetta dell’Arena [oggi comunemente chiamata «Cappella degli Scrovegni»] che Enrico Scrovegni erigeva in espiazione dei suoi peccati e di quelli dei suoi – suo padre fu da Dante messo nel settimo cerchio, massimo fra gli usurai – è opera inconfondibile del fiorentino.
Se in Assisi e a Firenze le tracce di aiuti solo palesi, qui in tutti i quadri della vita della Vergine e di Cristo, vi è la mano sicura del grande maestro.
Ma di questa meraviglia della fortunata città tanti han parlato e scritto in riviste e giornali. La stessa R. Università di Padova indisse una serie di conferenze su Giotto e la sua Scuola, lette da studiosi nostri e esteri, che saranno certamente raccolte in volume s ricordo di questo centenario.
Chi più di tutti accennò alle relazioni del pittore con i Frati del Santo fu il prof. Andrea Moschetti, direttore del Museo Civico di Padova, che asserì – lo aveva scritto in precedenza [Moschetti Andrea, Gli «Scrovegni» e gli «Eremitani» a Padova, Milano, 1934 – pag. XVIII] – essere merito dei francescani conventuali se Giotto venne a Padova. Sarà bene in questa rivista francescana far conoscere brevemente quando e perché i Frati del Convento del Santo chiamarono Giotto a Padova.
La cronologia della vita e delle opere di Giotto non è ancora ben definita, ma per Padova si può dire che si hanno dati abbastanza precisi.
L’affermazione del Vasari [Vasari Giorgio, Le vite dei più eccellenti pittori ecc., Milano – Sonzogno 1928, pag. 307 e 316] di due venute del fiorentino a Padova non ha più credito presso gli studiosi.
Nella recente opera del Cecchi [Cecchi Emilio, Giotto con 200 tavole. U. Hoepli ed. Milano, 1937, pag. 162] compaiono tanto gli affreschi del Santo come quelli dell’Arena tra gli anni 1303-5. Sono gli anni che aveva stabiliti il prof. Moschetti [Moschetti Andrea, Questioni cronologiche giottesche. Padova, stabilimento tip. Luigi Penada, 1921 – Estratto degli Atti e Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova, a. 1921, vol. XXXVII. Vitaletti Guido, recensione a Questioni cronologiche in Giornale dantesco a. XXV quad. I pagg. 80-1]. Certamente il 25 marzo 1305 avvenne la dedicazione della chiesetta che era perciò in quell’anno già dipinta. Giotto vi avrebbe lavorato «dalla metà del 1303 al 25 marzo 1305 o a poco prima» [Moschetti, Op. cit., pag. 9]. Questa notizia viene confermata da un’altra recentissima, la più antica che parli della chiesetta degli Scrovegni, dalla quale veniamo a conoscere che nel gennaio del 1305 le pitture erano già avanti se gli Eremitani si lamentavano che Enrico Scrovegni aveva sorpassate le concessioni del vescovo Ottobono dei Razzi erigendo non parvam ecclesiam ma magnam ecclesiam, et alia multa quae ibi facta sunt potius ad pompam, et ad vanam gloriam [Ronchi Oliviero, Un documento inedito del 9 gennaio 1305 intorno alla cappella degli Scrovegni – Estratto delle Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova a. 1935-36, vol. LII].
Le pitture del Salone [del palazzo della Ragione] invece vanno poste negli anni fra il 1305 e il 1307.
In tutto questo periodo Giotto visse a Padova; può essere di prova ciò che scrisse il Savonarola quando affermò che maximam suae vitae partem in ea consummaverit [Savonarola M., Libellus de magnificis ornamentis Regie Civitatis Padue curata da A. Segarizzi (ed. Città di Castello) t. XXIV, p. XV, pag. 44].
I dipinti della sala del Capitolo del Santo vanno posti precedentemente tanto agli affreschi dell’Arena quanto a quelli del Salone negli anni 1302, 1303.
La narrazione più completa degli affreschi della sala del Capitolo l’abbiamo dallo stesso fortunato scopritore: Padre Bernardo Gonzati, O. M. Conv., nella sua oramai tanto nota Storia della Basilica [Gonzati P. Bernardo, La Basilica di S. Antonio descritta ed illustrata, Padova, 1845 – Vol. I, pag. 30-34 e 265-266].
Dopo, pochi se ne interessarono.
Un accenno ne fece Suzanne Pichon nel Bollettino d’arte del Ministero della pubblica istruzione [Suzanne Pichon, Gli affreschi di Giotto al Santo di Padova, in Boll. d’arte del Min. della Pubbl. Istr., a. IV (1924) n. 10, p. 36 sgg. – Cfr. Rec. I Chiostri del Convento Santo, Il Santo, Rivista Antoniana n. 11, fasc. 3, p. 196]. La dotta scrittrice riassume esaurientemente quello che aveva scritto il Gonzati sugli affreschi del Capitolo.
Che cosa ha dipinto Giotto nella sala del Capitolo?
Il contemporaneo di Giotto Riccobaldo Ferrarese [Rer. Ital. Script., t. IX, col. 255] nella sua Compilatio chronologica che arriva al 1313 non ce lo dice espressamente, ma è preziosa la sua affermazione: «Zotus pictor eximius florentinus agnoscitur qualis in arte fuerit. Testantur opera facta per eum in ecclesiis minorum Assisii, Arimini, Paduae et per ea quae pinxit in palatio communis Paduae et in ecclesia Arenae Paduae». Ora Riccobaldo Ferrarese si stabilì a Padova verso il 1308 e pone questa sua affermazione coi fatti che successero fra il 1306 e il 1307.
Il Ghiberti dirà: «dipinse in Padova, nei frati minori, dottissimamente» [Vite del Vasari, Firenze, Le Monnier 1846. Commentario II. Vol. 10, p. XIX].
Più tardi il Savonarola: «Capitulum Antonii nostri etiam sic ornavit ut ad haec loca et visendas figuras pictorum advenarum non parvus sit confluxus» [Op. cit., p. 44].
Le parole del Savonarola ci fanno pensare che nel Capitolo del Santo vi fosse dipinta un’opera di straordinaria bellezza se a Padova affluivano per vederla pittori forestieri.
Che cosa ci fosse dipinto ce lo dice l’Anonimo Morelliano: «Nel Capitolo la Passione affresco fu de man de Giotto Fiorentino»[Anonimo Morelliano, Notizia d’opere di disegno nella prima metà del sec. XVI ecc., Bassano MDCCC, p. 6].
I frati del Santo avevano chiamato Giotto perché dipingesse nella sala delle loro adunanze la passione del Cristo tanto inculcata e predicata da S. Francesco ai suoi frati.
Le pitture che noi vediamo oggi nella sala del Capitolo non sono certamente così vive come erano al tempo di Giotto. Nel 1541 Francesco Fermo di Verona alzava nel mezzo del Capitolo a Cesare Riario, Patriarca Alessandrino, un monumento e addossava alla parete di mezzodì un altare rovinando così l’opera giottesca; in questo tempo anche la parete centrale venne coperta di calce. Soltanto un po’ prima, intorno al 1540, l’Anonimo Morelliano l’aveva veduta e descritta.
Il primo che pensò a liberare le pareti per scoprire le meraviglie di Giotto fu il Marchese Pietro Selvatico Estense nel 1842, ma non trovò che «uno scompartimento figurante varii monaci intorno ad un leggio», avanzo che scomparve del tutto poco appresso.
Il merito di averci data la sala del Capitolo come è oggi va ai due fratelli Gonzati; uno, padre Bernardo frate del Santo e l’altro Don Vincenzo, sacerdote vicentino.
Nella storia della basilica sono descritti ampiamente i procedimenti usati dai due fratelli per arrivare al felice risultato [Gonzati, Op. cit., vol. I, p. 233 e 265].
Ma veniamo agli affreschi.
La parte del levante, quella di fronte al portale ed ai luminosi finestroni che danno sul chiostro, era tutta dipinta e c’era la crocefissione; non era perciò aperta come pensò il Gonzati. Quando nel 1914 furono rimossi i grandi armadi appoggiati a questa parete venne alla luce un meraviglioso gruppo di figure che rappresentano i giudei al lato della croce. Perciò quel pallido dipinto che imita le antiche finestre binate danti sul chiostro sono opera assai posteriore.
È difficile in questa sala poter fare un confronto con le altre opere di indubbia fede del Maestro perché la calce ha bruciato tutte le tinte e noi non abbiamo davanti che un pallido disegno, in certe parti anche questo rovinato.
Certamente Giotto avrà avuto anche in quest’opera degli aiuti ma non è tanto facile scorgere l’una o l’altra mano.
Suzanne Pichon dà a Giotto il gruppo degli ebrei sotto la croce e le due lunette laterali dipinte sulla stessa grande parete, quello dell’impressione delle stigmate a S. Francesco, il martirio dei proto-martiri francescani.
Intorno però alla sala ci sono altre figure di profeti e di Santi che attirano la nostra attenzione, disposte nelle pareti di tramontana e di mezzodì con certa voluta simmetria: a sinistra la prima figura è S. Chiara, la seconda S. Francesco di Assisi, la terza e la quarta scomparse per l’apertura della porta che dà alla sacrestia, la quinta S. Giovanni Battista, la sesta il profeta David e, continuando nel lato di destra: la settima figura è il profeta Isaia, l’ottava è il profeta Daniele, la nona e la decima scomparse per l’addossamento dell’altare, l’undicesima S. Antonio e l’ultima figura simbolica della Morte.
Ma lasciamo pure la sala del Capitolo e portiamoci alla Cappella degli Scrovegni.
Sotto quell’epopea di colori non ci lamenteremo dei tempi che fecero scempio d’un capolavoro, ma riconosceremo che per opera dei frati venne Giotto a Padova e con l’aiuto di un ricco Signore, oggi noi possiamo deliziarci in una meravigliosa visione di vera arte.
P. Placido Cortese
O. F. M. Conv.