Tra i pochi testimoni ancora viventi dell’opera e della persona di Padre Cortese, Mario Gobbin, padovano, ricorda con ricchezza di particolari la sua personale esperienza con Padre Placido, che lo aveva assunto, appena quindicenne, per lavorare nel negozio dei ricordi della Basilica del Santo, di cui il Direttore dell’opera «Messaggero di S. Antonio» aveva la responsabilità. Oltre al suo lavoro in negozio, Mario Gobbin si prestò, su richiesta di padre Placido, al servizio di “staffetta”, per accompagnare le persone in pericolo nei primi passi verso la “salvezza”.
Verso la fine di maggio del 1943 fui presentato al P. Placido Cortese, allora direttore del «Messaggero di S. Antonio», da una mia ex insegnante di matematica (credo che il Padre fosse il suo direttore spirituale) per una richiesta di lavoro.
Non avevo ancora compiuto 15 anni, ero sì molto giovane, ma ricordo assai bene quel mio primo incontro con il P. Cortese, che avvenne nel chiostro della Magnolia, al Santo. Il Padre veniva dalla Basilica, dove aveva terminato di ascoltare le confessioni. Lo ricordo così: di statura media, mingherlino, un po’ claudicante e dall’aspetto mite e affabile: un volto sorridente che ispirava fiducia e serenità. Dietro a un paio di occhiali, occhi vispi e intelligenti pieni di comprensione. Mi fece alcune domande e alla fine mi disse: “Ripassa domani, che un posticino ci sarà anche per te”.
Fui assunto e assegnato, data la mia giovane età, al negozio di oggetti religiosi. Credo di essere stato l’ultimo, se non degli ultimi assunti dal P. Cortese.
Eravamo in guerra e le cose peggioravano di giorno in giorno, ma grazie al Padre mi sentivo felice perché avevo trovato il mio primo impiego.
Fin dai primi giorni in cui prestavo servizio, tante persone venivano a chiedere di poter incontrare il P. Placido. Ero nuovo dell’ambiente e non sapevo nulla di Lui, ma ben presto mi resi conto che il Padre era impegnato ad aiutare le tante persone che a causa della guerra, della politica e della diversità di religione, si trovavano in difficoltà gravissima.
8 settembre 1943: caduta del regime fascista; caos e confusione regnano sovrani, specie nei primi giorni dopo quella data, a causa del dissidio di molti cittadini con le forze militari tedesche, assai numerose a Padova. Le caserme si svuotarono e così le carceri e i campi di prigionia militari. Molte di queste persone si dettero alla fuga e alla macchia. Se prima c’erano da aiutare sfollati e senza tetto, il P. Cortese si trovò allora ad affrontare altri casi vitali e richieste di aiuto molto pericolose per i tempi che correvano: militari fuggiaschi e prigionieri di guerra evasi dai campi di concentramento. Tra questi ultimi, molti sloveni e croati (e qui il P. Placido mette il suo maggiore impegno) tutti bisognosi di aiuto per la sopravvivenza. P. Cortese non rifiuta e non lascia nessuno senza il suo aiuto materiale. Come facesse ad accontentare tutti, per me è rimasto sempre un mistero.
Durante la giornata passava molto spesso per il negozio, dove incontrava gente che lo aspettava, poi usciva in chiostro e lì trovava altre persone che avevano bisogno di lui. Ho visto con i miei occhi che, denaro o altro (cioè indirizzi di persone fidate o da chi si poteva trovare aiuto, soccorso o protezione) il P. Cortese distribuiva con grande generosità. Posso affermare questo in quanto più di una volta fui io stesso incaricato dal Padre di accompagnare persone – per lo più stranieri fuggiti dai campi di prigionia o provenienti da chissà dove – in certi luoghi da Lui indicatimi.
Mi diceva: “Accompagna questo o questi signori al tale indirizzo. Dirai: mi manda il Padre Cortese. Non parlare mai con le persone che accompagni e una volta sistemate vieni via immediatamente. Se qualcuno ti ferma e ti chiede chi fossero, rispondi semplicemente che quelli avevano chiesto di andare in una via che non conoscevano e tu avevi fatto loro il piacere di accompagnarli”.
Più volte ho accompagnato delle persone affidatemi dal Padre alla stazione di Santa Sofia, ora soppressa. Il mio compito era quello di acquistare i biglietti e di sistemare quelle persone sulla «littorina» [convoglio ferroviario in uso a quel tempo], possibilmente in scompartimenti non troppo affollati. Un rapido saluto a quei poveretti dal destino incerto, un cenno della mano e poi via al «Messaggero», dove Lui mi attendeva per sapere com’era andata la missione. Spesso era preoccupato. Una volta gli è sfuggita una frase: “Poveretti, speriamo che ce la facciano!”.
Il P. Placido Cortese era una persona molto umana e sensibile; amava veramente il prossimo più di se stesso e viveva intensamente i drammi, le preoccupazioni e le angosce della gente che ricorreva a lui ma anche di tutte le altre persone, senza distinzione di idee e di princìpi, specie in quei momenti tanto tristi di dolore, di persecuzione, di distruzione e di morte. Pe tutti aveva un sorriso e parole di incoraggiamento per continuare a vivere e a sperare. Il risultato si poteva capire o, almeno, intuire dal volto delle persone dopo un incontro con Lui.
I rapporti con il personale del «Messaggero di S. Antonio» non posso dire quali siano stati, dato il poco tempo trascorso alle sue dipendenze, ma sono convinto che fossero buoni, se non ottimi, perché dopo anni dalla sua scomparsa, era ancora vivo il ricordo della sua bontà e generosità in quanti l’avevano avuto come direttore.
Certo è che, alla notizia della sua scomparsa – e in quel modo! – tutti ne siamo rimasti addolorati e sbigottiti.
In Padre Cortese avevamo perduto una persona dal grande cuore e dall’anima aperta al prossimo fino all’estremo sacrificio della propria vita.
Mario Gobbin