Sembrava che il tempo trascorso nei campi di concentramento e la fame patita da bambino l’avessero reso quasi immortale.
Triestino di lingua slovena e fecondo scrittore, Boris Pahor (1913-2022) è da annoverare tra i testimoni e le vittime dei totalitarismi, dai fascismi a Tito.
In “Necropoli”, il più noto tra i suoi libri, raccontò l’esperienza dei lager nazisti. Profondamente sincero e coerente con le sue idee, consapevole del suo ruolo di memoria storica del ’900, Boris Pahor ha sempre sentito il dovere morale di denunciare la deriva etica dei nostri tempi, mettendo in guardia i giovani sul male che ha attraversato il XX secolo” (Riccardo Michelucci, in Avvenire, 31 maggio 2022).
Per noi rimane fondamentale la sua testimonianza in video raccolta in occasione del docufilm “Il coraggio del silenzio”, realizzato nel 2006 e dedicato a Padre Placido Cortese, raccontando, per diretta esperienza, gli orrori che avvenivano nella sede della Gestapo di piazza Oberdan a Trieste.
Nel 2010 diede alle stampe il volume: Piazza Oberdan, “luogo dove convergono i ricordi dolorosi del Novecento”, come egli lo definiva. In quest’opera, così scrisse Boris Pahor di Padre Placido:
… Un francescano di Cres/Cherso che prima del passaggio dell’isola sotto l’Italia era stato alunno della scuola di Cirillo e Metodio. Questo legame con la lingua croata gli facilitò i contatti con i detenuti sloveni nel campo di internamento di Chiesanuova, non lontano da Padova, dove il frate redigeva il foglio della comunità francescana di Sant’Antonio. Il minorita, simpatico e lucido, si prodigava, come sappiamo ora, nella missione evangelica; quando poi iniziò il periodo del terrore nazista, fece il possibile e l’impossibile per salvare… E, se non fosse stato tradito, probabilmente avrebbe continuato la sua missione cristiana. Così, dopo essere stato sequestrato a Padova all’esterno del convento, venne condotto nelle segrete sotto piazza Oberdan. Questo avvenne agli inizi dell’ottobre del 1944; alcuni giorni prima avevano trasferito là anche il pittore Zoran Mušič. Questi ebbe la cella accanto a quella del frate, che entrando nell’ordine aveva scelto di chiamarsi Placido. Mušič raccontò che il giovane francescano continuava a implorare e ad assicurare che non aveva tradito nessuno. Qualcuno lo vide completamente prostrato e con le dita spezzate. Io invece me lo immagino in una lotta spirituale per non tradire qualcuno, nonostante le torture, soprattutto perché si trattava di una persona serena, abituata a stare a fianco delle persone, messa di punto in bianco davanti al dilemma tra il trapasso e il tradimento… Questo francescano fu senza dubbio uno dei Cristi del XX secolo. I suoi confratelli a ragione si sforzano affinché venga annoverato tra i beati: chi di noi affrontò prove meno difficili delle sue può soltanto inchinarsi di fronte a un così eroico donare se stesso.
Boris Pahor